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Marilyn, pasionaria rossa tra politici, mafiosi e spie
Pubblicato da Mario La Ferla in Spionaggio • 17/02/2008

Quel maledetto luglio del 1962 se ne stava andando accompagnato da un caldo opprimente. Chiusa nella sua casa di Brentwood, Marilyn non si era del tutto ripresa dallo shock per le violenze subite durante l' agguato nell' appartamento del Cal-Neva Lodge di Las Vegas.
Il suo corpo portava ancora i segni delle torture inflittele dai manigoldi agli ordini di Sam Giancana, sotto lo sguardo distante di Frank Sinatra.
Ciò che le faceva più male era il pensiero di aver subìto quell' attentato proprio dalle persone dalle quali mai si sarebbe aspettata un trattamento tanto cattivo e violento. Provava una delusione bruciante e feroce. Aveva riflettuto a lungo, soprattutto nelle interminabili notti insonni, sui motivi che avevano spinto i suoi amici a impartirle quel trattamento tanto malvagio.
Un pomeriggio che l' Fbi indicò come quello del primo agosto, le aveva telefonato Bobby. Era felice, quando sentiva la sua voce, almeno lui la chiamava ancora, nonostante quel brusco addio della notte del 29 maggio. Ma Bobby aveva fretta, voleva soltanto ricordarle l' impegno: non parlare con nessuno dei loro rapporti e non confidare i segreti suoi e di suo fratello.
Solo allora Marilyn, in un momento di lucidità, aveva capito che la causa del suo incubo erano i fratelli Kennedy, i suoi amanti più illustri.
Per la prima volta, aveva avuto la visione esatta di chi fossero veramente. E aveva tremato. Però era riuscita ad avere un' impennata di orgoglio, l' ultima della sua vita.
Per la sera del 1° agosto aveva ricevuto da Bobby un invito a cena, in un ristorante di Los Angeles, per festeggiare Peter Lawford e sua moglie Patricia. Sarebbe stata presente anche la moglie di Bob, un evento straordinario.
Al suo amante perduto aveva inviato un telegramma: «Cari procuratore generale e signora, sarei stata felicissima di accettare il vostro invito in onore di Pat e di Peter. Purtroppo sono impegnata in una manifestazione per la difesa dei diritti delle minoranze e appartengo alle ultime stelle che rimangono legate alla terra. Poiché, in fondo, tutto ciò che rivendichiamo, è il nostro diritto a scintillare. Marilyn Monroe».
Quando, infine, Lawford l' aveva invitata per la sera del 4 agosto alla serata organizzata nella sua villa sulla spiaggia di Santa Monica, Marilyn gli aveva risposto al telefono: «Non ci pensare nemmeno! Non ci sarò. Perché dovrei venire? Perché mi passino dall' uno all' altro come un pezzo di carne?! Ne ho avuto abbastanza. Non voglio più che si servano di me. Frank, Bobby, tuo cognato il presidente».



La storia ricorda che il mese di luglio 1962 ha rappresentato un momento di tensione allarmante per l' America e il mondo intero. Era il periodo dei pericolosi confronti tra l' Occidente e il mondo comunista. L' Unione sovietica aveva dichiarato che avrebbe difeso la Cina da qualsiasi aggressione. Gli americani avevano iniziato a morire in Vietnam.
I rapporti con Fidel Castro erano pessimi, nel momento in cui maggiore era l' appoggio del Cremlino a Cuba.
Miseramente erano finiti tutti i tentativi della Cia, e dei boss di Cosa nostra, di eliminare il Lider maximo, mettendogli veleno nei cibi del suo ristorante abituale, all' Avana. E nel test di quel mese, la Casa Bianca aveva dato ordine di detonare una serie di bombe nucleari tecnologicamente avanzate. Qualcuno ha scritto che mai, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il mondo si era trovato, come in quel luglio, sul precipizio di un nuovo conflitto. «La colpa è dei comunisti!», aveva ammonito Edgar Hoover, «e di tutti coloro che hanno collaborato alla loro infiltrazione nei punti strategici della politica americana».
L' allarme di Hoover era arrivato anche alla Casa Bianca, accolto da una sensazione di pericolo reale. Edgar Hoover si preparava a raccogliere i frutti del suo allarmismo.
Adesso poteva sferrare il suo attacco finale alla Casa Bianca.
Sembrava incredibile, ma il direttore dell' Fbi, proprio nel momento di maggiore difficoltà dei vertici politici degli Stati Uniti, continuava una guerra personale contro il suo nemico, rappresentato da una famosa, imprudente, svagata, attrice di Hollywood.
Hoover era convinto che Marilyn rappresentava ormai un pericolo, vero e reale, per la sicurezza dell' America. Aveva carpito i segreti dai suoi amanti, e quei segreti erano stati svelati a Frederick Vanderbilt Field. Le indagini degli agenti federali di Washington e Mexico City avevano accertato che il "miliardario rosso" era amico di Fidel Castro, conosciuto a Cuba.



Il Lider maximo e il bisnipote del commodoro avevano fraternizzato, trovando molti punti in comune nella loro visione politica internazionale. In particolare, per quanto riguardava i rapporti tra gli Stati Uniti e Cuba, Vanderbilt aveva confidato a Fidel il suo totale disprezzo per il governo americano, colpevole di avere appoggiato il dittatore Batista. Secondo l' Fbi, il «miliardario nato con la camicia» lavorava su due fronti caldi, l' Urss e Cuba. La sua attività di spia aveva subìto un' autentica impennata a partire dal febbraio 1962: era stato Vanderbilt Field ad avvertire Fidel Castro che effettivamente, come lui aveva temuto, la Cia con la collaborazione di Cosa nostra stava preparando un attentato per farlo fuori allo scopo di rimettere le mani su Cuba. Non solo, ma era stato ancora lui a riferire a Castro i retroscena del fallito attacco alla Baia dei Porci, con i particolari del coinvolgimento della Casa Bianca. Risultava inoltre che Frederick aveva svelato ai suoi compagni di Mosca, attraverso il segretario d' ambasciata Vassili Zubilin, i piani riservatissimi del programma nucleare americano. In poco tempo, Vanderbilt Field era riuscito, dalla sua casa di Mexico City, a fornire notizie importantissime ai suoi amici a Mosca e all' Avana. L' Fbi aveva registrato tutto. Missili, attentati, sbarchi clandestini, bombe atomiche, piani di invasione nel sud-est asiatico e altri segreti fondamentali per la sicurezza dell' America, erano stati confidati dal presidente e dal ministro della Giustizia a Marilyn, a letto, tra un amplesso e l' altro, mentre i due focosi fratelli ne volevano ancora e lei, invitante e civetta, chiedeva di più. Lei offriva sesso, loro ricambiavano con segreti di Stato che lei passava al suo amante miliardario e "rosso".
L' una e gli altri, senza pensarci troppo, senza remore e ripensamenti, senza una briciola di dubbio o di sospetto. Serenamente, beatamente, spensieratamente, come studenti di un college che fanno all' amore per la prima volta. Ma Hoover aveva deciso che era arrivato il giorno del giudizio. Marilyn, la spia bionda, avrebbe pagato il prezzo delle sue colpe. I Kennedy, finalmente, sarebbero stati informati compiutamente sulla vera identità della loro amante.
Sapevano, o credevano di conoscere, tutto di lei.
Che era stata l' amante di mafiosi importanti e di scalzacani qualsiasi, che aveva avuto relazioni con donne, che aveva messo piede per la prima volta negli studios non negandosi a vecchi e capricciosi produttori. Sapevano di lei che era diventata inaffidabile, da quando ripeteva con monotona ossessione di voler sollevare uno scandalo nazionale raccontando ai giornalisti le loro storie d' amore segrete.
Ma che fosse una spia al servizio dei comunisti e che fosse diventata l' amante del miliardario Vanderbilt Field al quale aveva riferito i loro segreti da passare a Mosca e a Cuba, questo non se l' aspettavano proprio. E quando lo avevano saputo, Jack e Bobby erano rimasti di ghiaccio. Non soltanto perché avevano conosciuto un risvolto sconvolgente della personalità della donna con la quale si erano sollazzati credendola una bambola fragile e disponibile, ma anche perché di questo umiliante retroscena erano stati informati gli altri enti di Stato. Per colpa di Marilyn, stavano correndo il rischio di diventare gli zimbelli del mondo politico degli Stati Uniti.

Il 26 luglio, la divisione di Intelligence nazionale dell' Fbi, cioè il dipartimento del Controspionaggio, aveva trasmesso un dossier alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato, al ministero della Giustizia e, per conoscenza, alla direzione della Cia dov' era intanto arrivato il repubblicano John McCone. Il documento di 500 pagine era contrassegnato dal numero "105", codice attribuito a "questioni di intelligence estera" e fino ad allora tenuto segreto come "B1". Questa sigla si riferiva ai documenti dei servizi segreti riguardanti questioni di sicurezza nazionale. Il "dossier 105" conteneva una voluminosa ed esplosiva relazione su quanto aveva detto e fatto Marilyn Monroe negli ultimi mesi, in particolare i retroscena del suo soggiorno in Messico. C' era tutta la storia della Monroe, raccontata da Edgar Hoover in prima persona. S' era voluto togliere lo sfizio di scriverlo lui, sulla sua macchina da scrivere personale, quel romanzo messo insieme con le notizie raccolte in lunghi anni di inchieste e ricerche. E di manipolazioni diaboliche. All' ultimo momento, Hoover aveva inserito nel "dossier 105" un' altra informativa. Risaliva a tre giorni prima. Il 23 luglio, due federali avevano informato il Bureau che la Monroe, a Città del Messico, aveva parlato con Vanderbilt Field anche di un altro incontro con il presidente: «Ha detto di aver pranzato nella residenza di Peter Lawford con il presidente John Kennedy solo pochi giorni prima, alla fine di gennaio. Era molto compiaciuta, poiché aveva fatto al presidente moltissime domande di contenuto sociale riguardanti la moralità dei test atomici». Ai suoi amici dell' "American Communist Group in Mexico", la Monroe aveva raccontato tutto quello che i Kennedy le avevano svelato sull' argomento, anche quello che sarebbe avvenuto di lì a pochi mesi. In luglio, ci sarebbe stata la prima detonazione di una bomba H sul territorio degli Stati Uniti, e altri test sarebbero seguiti al primo. E aveva precisato che Robert Kennedy, con il presidente del "Joint Chiefs" al suo fianco, avrebbe presenziato a uno di quei test. Il dossier di Edgar Hoover aveva avuto un effetto deflagrante. Incredulità, sconforto, preoccupazione, paura: questi i sentimenti provocati dal "dossier 105" in chi lo aveva ricevuto. Alla Cia, il direttore repubblicano John McCone mostrava, in pubblico, rammarico e inquietudine. In privato, con i suoi amici petrolieri, se la rideva di gusto. Non era mai successo che un presidente degli Stati Uniti e il ministro della Giustizia suo fratello, fossero stati così platealmente e in maniera patetica colti con le mani nel sacco. Anche al dipartimento di Stato, dove quasi tutti erano schierati con i Kennedy, regnavano stupore e malinconia. Spiegata in poche parole, i vertici politici degli Stati Uniti erano stati gabbati da una famosa attrice, che prima se li era portati a letto, li aveva fatti parlare sulle cose segrete dello Stato, e poi aveva spifferato tutto a una combriccola di spie comuniste guidate dal miliardario bisnipote del commodoro Cornelius Vanderbilt. La situazione appariva talmente tragicomica che anche gli amici non sapevano se ridere o piangere. I due fratelli avevano deciso di reagire. Avevano già interrotto il rapporto con Marilyn, ma il pericolo di altre rivelazioni non era stato scongiurato. Chi poteva assicurare che quella pazza non avrebbe davvero convocato la conferenza stampa tanto minacciata, per sollevare un putiferio internazionale? In quel momento, Jack e Bobby avevano due nemici da combattere: Marilyn Monroe ed Edgar Hoover. Avrebbero dovuto neutralizzarli, per evitare che circolassero altre indiscrezioni e che fossero distribuiti altri dossier. Hoover era inattaccabile, protetto dalla gabbia d' acciaio costruita attorno a sé. Se soltanto avessero provato a sfiorarlo, sarebbero rimasti travolti da una gigantesca tempesta di fango. Restava Marilyn.
Il presidente aveva preparato un piano che prevedeva un altro incontro con Marilyn. Bobby l' aveva bocciato: dopo poche ore sarebbero stati informati da quella vipera di Hoover che l' abboccamento tra il presidente e la sua amante comunista era stato registrato e sistemato in archivio. Secondo Bobby, sarebbe stato meno insidioso agire alla luce del sole. Hoover non si sarebbe meravigliato più di tanto, se avesse registrato un altro suo incontro con Marilyn. Risultava che erano ancora amanti.
Così i Kennedy, confortati anche dal consiglio di famiglia, avevano optato per un appuntamento che Bobby avrebbe proposto a Marilyn.
La regia dell' "ultimo incontro" era stata affidata a Peter Lawford.
Il cognato aveva pensato a un incontro intimo, ma non troppo. Confidenziale, più che altro. Ma nemmeno troppo segreto. Quindi era stato scelto un ristorante, di quelli eleganti e discreti, dalle parti di Sunset Boulevard. L' appuntamento era per cena, al ristorante italiano "La Scala".
Lawford aveva incominciato a raccontare in giro che i rapporti di Marilyn con la Fox erano compromessi e che lei, disperata, aveva chiesto aiuto al suo amico Bob Kennedy. Veramente, aveva spiegato Lawford, non era stata direttamente Marilyn a chiamare il ministro a Washington. Della cosa si era occupata la sua addetta stampa, Patricia Newcomb. Così, la sera di venerdì 3 agosto, a un tavolo della "Scala", insieme con Marilyn erano seduti Robert Kennedy, Peter Lawford e Patricia Newcomb. I federali che registravano l' evento avevano fatto notare al loro direttore che l' attrice aveva gli occhi lucidi, come fosse ubriaca o drogata. Parlava a stento, la testa ciondolava da una parte all' altra. I suoi commensali parlavano, lei non riusciva nemmeno ad ascoltarli.
L' impressione, riferita a Hoover, era che quei tre stessero sottoponendo la Monroe a una specie di processo. Ma l' imputata sembrava completamente assente.
Il "processo" si era concluso a notte alta, quando ormai il ristorante era vuoto e Marilyn non in grado di reggersi in piedi.
I suoi compagni di cena l' avevano accompagnata a casa con l' auto di Lawford.
Il giorno dopo, sabato 4 agosto, Marilyn si era ripresa dalla sbornia della sera prima.
E aveva ricostruito con lucidità quell' incredibile cena. Era stata minacciata, non c' erano dubbi. «O te ne stai zitta per il resto dei tuoi giorni o saranno guai grossi!». Con infantile presunzione, rifiutava quella lezione. Aveva deciso di passare all' attacco, con una mossa che si rivelerà disastrosa, e l' ultima della sua vita. Per lunedì 6 agosto aveva convocato alcuni giornalisti suoi amici di Los Angeles in un albergo di Hollywood. Marilyn avrebbe tenuto una conferenza stampa sul tema: «Io e i Kennedy».
Anche alcune reti televisive avevano assicurato la loro presenza. La voce di quell' iniziativa aveva fatto il giro di Hollywood in poche ore. La notizia era rimbalzata fino a Washington.
La conferenza stampa di lunedì 6 agosto fu rinviata all' ultimo momento. Era stato Sidney Skolsky, importante giornalista di Hollywood, ad avvertire i suoi colleghi. Per domenica aveva appuntamento con Marilyn al ristorante dello Schwab' s Drugstore di Hollywood per un' amichevole chiacchierata. Avrebbero parlato soprattutto del progetto di un film che Marilyn aveva in mente di realizzare sulla vita della sua attrice preferita, Jean Harlow. Non vedendola arrivare, aveva telefonato alla sua villa ricevendo la notizia della sua morte. Marilyn aveva finito di parlare e di mettere nei guai la gente importante. L' avevano trattata male anche questa volta come già a Las Vegas Frank Sinatra e Sam Giancana con gli scagnozzi della mafia. Soltanto che quella volta, era per avvertirla. Stavolta, era per sempre. Dean Martin commentò: «Marilyn è morta a trentasei anni. Meglio così. Sarebbe stata contenta anche lei, se soltanto avesse avuto il tempo di salutare un po' di gente». Addio a tutto, a Hollywood e ai suoi studios, ai mariti e ai chissà quanti amanti, alla madre pazza e al padre che non c' era mai stato, al dolce e vile Frank Sinatra, al suo psichiatra di cui non aveva mai intuito la doppiezza, a Yves Montand che l' aveva amata fino a quando il partito comunista non l' aveva richiamato all' ordine, ad Arthur Miller marito troppo intelligente e troppo egoista. Addio agli amatissimi Jack e Bobby, incantevoli compagni di notti troppo brevi e odiosi nemici delle ultime ore. Addio agli attori famosi e alle comparse sconosciute e disperate com' era stata lei da giovane, a Joan Crawford vipera vendicativa e alla divina Greta Garbo, al delizioso Truman Capote, al geloso Joe Di Maggio. Addio anche a quelle canaglie di Sam Giancana e Joe Rosselli e a tutti quei gangster che l' avevano esibita come un trofeo di caccia, addio ai cantanti e agli scrittori che faranno la storia della "Beat generation", addio agli amici comunisti sparsi per le città e i villaggi messicani a caccia di avventure e di segreti da inviare a Mosca e all' Avana. Addio anche al Messico, amato e fatale. Adiòs.

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