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Nella fine di Moro la parabola di Cossiga
Pubblicato da Giovanni Sabbatucci in Spionaggio • 18/08/2010

ROMA (18 agosto) - Nella storia della Democrazia cristiana, di cui fu dirigente e fedele militante per oltre un trentennio, e della Repubblica italiana, che lo vide ricoprire i ruoli istituzionali più prestigiosi, Francesco Cossiga occupa un posto del tutto particolare, difficilmente riconducibile alle logiche abituali di quel mondo e di quella cultura politica. E questa peculiarità è tutta legata, direttamente o indirettamente, all’evento che condizionò, nel bene e nel male, la sua carriera politica, ma soprattutto ne segnò indelebilmente la parabola umana: il rapimento, la prigionia e la morte di Aldo Moro.



Quando, nel marzo 1978, si trovò a gestire in prima persona, in quanto ministro degli Interni del neonato IV governo Andreotti, l’improvvisa e traumatica emergenza del rapimento del presidente della Dc, Cossiga aveva cinquant’anni ed era un politico democristiano da tutti dato in ascesa, ma a cui pochi pronosticavano un ruolo da protagonista della politica nazionale. Era più colto, più curioso della media dei suoi colleghi, con una speciale passione per le cose militari e i romanzi di spionaggio: ma questo lo avremmo saputo dopo.

Come ministro degli Interni (lo era già nel precedente governo Andreotti della “non sfiducia”), era diventato il nemico numero uno dei movimenti di contestazione: ma questa popolarità negativa (Kossiga col k iniziale) era dovuta all’ufficio ricoperto più che alla sua figura e alla sua scelta di una linea dura, peraltro da lui rivendicata con orgoglio fino all’ultimo.

I terribili cinquantacinque giorni della prigionia del presidente Dc, la scelta sofferta della linea della fermezza, la rottura drammatica con la famiglia di Moro (in particolare con la moglie Eleonora, morta poche settimane fa), l’epilogo tragico della vicenda, con il ritrovamento del cadavere la mattina del 9 maggio e le dimissioni da ministro degli Interni rassegnate il giorno dopo: tutto questo lo caricò di una somma di responsabilità difficilmente sostenibile anche per spalle più forti delle sue.

Da quei cinquantacinque giorni, Cossiga uscì invecchiato di parecchi anni e trasformato d’un colpo in personaggio tragico. Paradossalmente questa trasformazione, assieme alla dignitosa prontezza con cui aveva lasciato il suo incarico e ammesso il suo personale fallimento, giovò alla sua carriera politica, che fu da allora strepitosa: presidente del Consiglio nel ‘79, presidente del Senato nell’83, presidente della Repubblica nell’85. Ma il ricordo del caso Moro sarebbe tornato a perseguitarlo, e probabilmente a rovinargli la vita, attraverso una serie infinita di sospetti ingiusti, di ipotesi accusatorie mai dimostrate, di scenari dietrologici privi di qualsiasi riscontro oggettivo.

Si insinuò, più o meno apertamente, che Cossiga, in quanto legato da un rapporto speciale con i servizi segreti allora infiltrati dalla P2, avesse responsabilità dirette nel mancato ritrovamento del covo brigatista in cui Moro era detenuto, quasi che i poteri occulti di cui il ministro sarebbe stato espressione preferissero lasciarlo morire piuttosto che vederlo tornare in circolazione. La stessa rigidità della linea della fermezza, che il governo aveva assunto solidalmente, gli fu imputata come una colpa personale: e a volte proprio da quelle forze politiche (in primo luogo il Pci) che più delle altre l’avevano sposata, fino a farne la condizione essenziale del proprio appoggio all’esecutivo.

Personalmente, sono sempre stato convinto che quella linea non avesse alternative, almeno a livello delle scelte ufficiali (altra cosa erano i contatti sottobanco, che anche allora non mancarono). E che gli errori e i buchi investigativi delle indagini condotte nei giorni convulsi del rapimento, fossero appunto errori, e non altro. Cossiga li ammise con lealtà. Ma la forza dei sospetti e delle ipotesi complottistiche si dimostrò, in questo come in altri casi, soverchiante. L’ex ministro degli Interni ne fu fra le più illustri vittime. Ma, paradossalmente, ne fu in parte contagiato.

Nell’ultimo ventennio della sua vita, a partire dagli anni conclusivi del suo mandato presidenziale, Cossiga si trasformò per la seconda volta. Decise di accompagnare, e a modo suo di secondare, il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica attraverso una serie di interventi polemici, spesso provocatori (le famose “picconate”); si scontrò con buona parte dei politici italiani, soprattutto con quelli del suo partito d’origine; si rese protagonista di qualche rapida incursione nella politica attiva (la fondazione dell’Udeur e il sostegno al governo D’Alema nel ‘98), lasciandovi comunque il segno.

Soprattutto, non mancò mai di far sentire o di lasciar intuire la sua opinione su tutti i maggiori eventi della politica nazionale: ma lo fece per lo più attraverso messaggi cifrati, battute allusive, spesso folgoranti e a volte velenose. Quasi si sentisse ancora impegnato in una continua battaglia contro avversari invisibili. E avesse deciso di combatterli con le loro stesse armi.


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